In margine alla
Via degli Dei, un percorso escursionistico di quasi 130 chilometri di lunghezza ed oltre 5mila metri di dislivello in salita (ed altrettanti in discesa) che collega Bologna a Firenze passando per l'Appennino Tosco-Romagnolo.
Sei giorni di cammino con un'amica. Una scelta, quella del trekking, maturata soltanto una manciata di giorni prima, all'insegna del carpe diem. Giusto il tempo di prenotare il posto letto, nemmeno il tempo di studiare la cartina e le tappe. O di vagheggiare su ciò che ci avrebbe riservato il cammino. Zaino in spalla con lo stretto indispensabile da indossare: vestiti per il dopo cammino, giacca per il freddo, un paio di scarpe per il riposo.
Alle 9 di domenica mattina, in una Bologna lavata di fresco e silenziosa, scarponi ai piedi siamo salite leste lungo i quasi 4 km e sotto i 666 portici che conducono al santuario della Beata Vergine di San Luca. Da lì, varcato il cancello, ci siamo lasciate il cemento alle spalle che, salvo qualche breve tratto, abbiamo ritrovato a Fiesole da dove, cupolone del Duomo a farci da bussola, siamo giunte in piazza della Signoria a Firenze, tappa finale del cammino. Tra le due città, ore ed ore di cammino fatto di continue salite e discese e tratti pianeggianti lungo il Reno, tra la vegetazione della pianura e poi quella della collina e degli Appennini fino a quota 1200 mt. Un passo dopo l'altro in alpeggi con laghetti, tra castagneti, su tratti dell'antica via romana Flaminia militare, tra larici nella loro nudità invernale, e boschi di faggi. E poi i pini marittimi ed i cipressi toscani a riempire gli occhi di bellezza. Piccoli borghi incastonati nel verde in cui il tempo sembra rimasto sospeso. Altri viandanti con i quali abbiamo condiviso parole e passi lungo il percorso.
"Il brivido che proviamo non è dato dal traguardo tagliato, ma dalla quantità immane di fatica che lo precede. (...) Quel brivido conferma che la fatica appartiene alla memoria del nostro corpo. È la fatica, anche se celata, la prima ragione della necessità, avvertita profondamente da sempre più persone, di mettersi in cammino. Ritrovare il bracciante che è in noi, lo schiavo, l'uomo schiantato a terra dalla terra, che non desidera nulla, che non alza la testa e che, se sogna, sogna una e una sola cosa. (...) Provando la fatica e non la stanchezza, egli può imparare a venire meno, a venirsi meno, Ah dimenticarsi di sé, di ciò che è in sovrappiù, e in quello stato di vago inibetimento iniziare a covare un sogno, alimentarlo passo dopo passo, metterlo al centro della vita, renderlo un punto fermo, fare sì che tutte le sortite siano puntate in quella direzione" (Luigi Nacci, "Non mancherò la strada - che cosa può insegnarci il cammino")
La stanchezza fisica si fa sentire, mentre quella mentale allenta la presa, fino a farci sentire la testa leggera. I pensieri diventano sempre più disarticolati e radi e la mente sembra galleggiare sulla superficie del mare come fosse a peso morto. Ed in quel vuoto, come un gayser, sprizza fuori un seme di vita nuova per l'anima.
Il piacere crescente, tappa dopo tappa, di camminare a lungo per il gusto di farlo, non tanto per quello di raggiungere la meta finale. E non importa quanto tempo impieghiamo a percorrere la tappa perché non camminiamo per "misurarci" con il tempo ma per rallentare dentro, per allegerirci togliendo le zavorre dei pensieri inutili e per godere di ciò che ci sta intorno.
Il silenzio, amato compagno di viaggio che dapprima ci tende la mano e poi ce la tiene stretta. La musica della natura che si fa ascoltare: i primi uccelli della primavera, il Reno che scorre placido e lento, lo scricchiolio delle foglie invernali sotto i nostri piedi, il vento con le sue melodie tra gli alberi spogli. Silenzio fuori che passo dopo passo diventa silenzio interiore.
Camminiamo e sogniamo in continuazione: di mollare il lavoro ed anche la casa e di costruirci un'altra vita a dimensione dei nostri sogni.
Da un cammino così, non si fa ritorno. Una parte di noi è rimasta là, in cima al monte Adone, sul tappeto di foglie dei castagneti, sul selciato della Flaminia militare. Siamo state lontane da casa solo sei giorni ma a noi è sembrato un tempo incommensurabile perché il cammino interiore è stato lungo e denso. Tornate a casa con la voglia di rifare lo zaino e rimetterci nuovamente in cammino.
La vita è un cammino e camminare è vivere due volte.
Per due torte da 26 cm di diametro
Per la pasta frolla
300 g di burro
200 g di zucchero a velo
80 g di tuorli
500 g di farina
semi di mezzo baccello di vaniglia
Tirare fuori dal frigo il burro e le uova di modo che raggiungano la temperatura ambientale. In planetaria con la foglia o con un mixer casalingo, lavorare il burro, lo zucchero a velo ed i semi di vaniglia quel tanto che serve a creare un composto cremoso. Unire poi i tuorli e lasciarli incorporare. Da ultimo, unire la farina e lavorare quel tanto che serve a farla assorbire. Formare un panetto, avvolgere nella carta forno e lasciare riposare in frigo almeno un paio d'ore. L'impasto può essere preparato anche il giorno precedente.
Al momento dell'utilizzo, tirare con il mattarello ad uno spessore di 5 mm e foderare il fondo ed i bordi di un anello microforato da 26 cm di diametro. Bucherellare il fondo con i rebbi di una forchetta e cuocere in forno preriscaldato a 150 °C per 20 minuti. Tirare altra frolla ad uno spessore di 2-3 mm e creare dei biscotti con un coppapasta rettangolare e poi cuocerli per una decina di minuti.
Per la dacquoise alle mandorle
135 g di farina di mandorle
150 g di zucchero a velo
140 g di albume
50 g di zucchero semolato
Nella ciotola della planetaria o in un recipiente (usando le fruste di uno sbattitore casalingo) miscelare gli albumi con lo zucchero semolato, far girare in planetaria al minimo fino a che lo zucchero non si sia del tutto sciolto e poi montare fino ad ottenere un composto ben fermo ma non fioccato.
Mescolando a mano con una spatola, unire la farina di mandorle e lo zucchero precedentemente mescolati assieme. Mettere in un sac a poché con una bocchetta da 10 cm di diametro e premere l’impasto all'interno dei gusci di frolla formando una chiocciola. Cuocere in forno preriscaldato a 180° C per 15 minuti, non di più. Deve restare un po’ umido: questa è la sua caratteristica… e pure il suo pregio !
Per la namelaka al cioccolato bianco e vaniglia
Da "Enciclopedia del cioccolato" dell'Ecole du gran chocolat Valrhona
150 g di latte
7,5 g di glucosio
semi di mezzo baccello di vaniglia
255 g di cioccolato Opalys di Valrhona
3 g di gelatina in fogli o in polvere
300 g di panna fresca
Se usate il cioccolato bianco del supermercato scegliete quello della Novi, le altre marche usano ben poco (se non...per niente del tutto) burro di cacao.
Mettere in ammollo la gelatina con 15 g di acqua fredda (dovrà essere assorbita interamente).
In una casseruola portare a bollore il latte con lo sciroppo di glucosio ed i semi del mezzo baccello di vaniglia e poi aggiungere la gelatina e farla sciogliere completamente.
Sminuzzare il cioccolato a farlo fondere lentamente a bagnomaria o nel forno a microonde (posizione scongelamento o potenza 500 w, mescolando di tanto in tanto per non farlo bruciare).
Versare lentamente un terzo del latte sul cioccolato fuso. Con una spatola in silicone, mescolare energicamente il composto descrivendo dei piccoli cerchi per ottenere un nucleo elastico e lucido. A questo punto incorporare un altro terzo del composto, mescolare secondo lo stesso procedimento, poi incorporare l'ultimo terzo seguendo lo stesso metodo. Aggiungere la panna fredda. Lavorare con il frullatore ad immersione per lisciare completamente l'emulsione.
Lasciare cristallizzare in frigorifero per alcune ore.
Per la namelaka al cioccolato Inspiration Framboise di Valrhona
150 g di latte
7,5 g di glucosio
255 g di cioccolato Inspiration Framboise
3 g di gelatina in fogli o in polvere
300 g di panna fresca
L'Inspiration Framboise è un cioccolato con un intenso sapore di lampone ideato dai maestri cioccolatieri della maison Valhrona ed è acquistabile on line. Il procedimento è il medesimo di quello descritto sopra per l'altra namelaka.
Assemblaggio
Una volta che il guscio di frolla e daquoise si saranno raffreddati, usando due sac a poche e due beccucci, creare i ciuffi di namelaka.